Quando il pallone diventa poesia

La copertina del libro di Valerio Piccioni 'Quando giocava Pasolini'
Pasolini e il calcio

 

PASOLINI – IL CALCIO E IL SUO LINGUAGGIO

 

"I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo "Stukas": ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!".

Pier Paolo Pasolini

 

Pasolini autoritrattoL’arte è gioco e, quindi, anche il gioco può essere arte. Era uno dei concetti che Pier Paolo Pasolini amava mutuare allo sport. Pasolini amava molti sport, ma il calcio in maniera particolare. Non quello urlato dello stadio, e neanche quello "ruffiano" dei vari processi televisivi. Pasolini amava il calcio giocato, anche se ad esso riservava un posto privilegiato nel suo immaginario, nei suoi libri, nel suo modo di guardare alla vita.

Una volta disse: "Peccato che tutti mi considerino solo un uomo di cultura. Vogliono da me unicamente giustificazioni culturali, anche perché oggi la cultura è un ottimo alibi. Mai che m’invitino a tenere una conferenza sul calcio, eppure sono ferratissimo. Gli sportivi sono poco colti e gli uomini colti sono poco sportivi. Ma io sono un’eccezione".

In una intervista, rilasciata a Enzo Biagi nel ’73, alla domanda "senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?" rispose: "un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri."

Un amore sviscerato, insomma. Eppure, nonostante questo, anche il rapporto calcio-Pasolini passava in secondo piano. Nessun testo, nessun film, solo articoli giornalistici e alcune interviste in Tv. Un vuoto colmato da Valerio Piccioni, giornalista della Gazzetta dello Sport, autore del libro dal titolo "Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta", edito da Limina. Un viaggio antologico nello sport amato dal poeta di Casarsa, fatto di corse e dribbling, di campi polverosi e ragazzi innamorati della vita.

Gli sarebbe piaciuto fare il calciatore; non avendolo fatto, se non per divertimento, amò giocare su tutti i campi, soprattutto quelli di periferia, fino a stancarsi. Non lo faceva per divertirsi, o per mantenersi in forma. Le partite a cui prendeva parte erano l’esatto contrario di quelle tra scapoli e ammogliati. Per lui era quasi una lente d’ingrandimento, come se in calzoncini corti ogni uomo gli svelasse la sua vera natura.

Era molto facile trovarlo in una borgata romana intento a giocare a calcio. Una passione per nulla intaccata dai canoni dello star system, del cinema e della letteratura, per i quali lui era un famoso regista. E non era legato solo a poche persone, Sergio e Franco Citti, Ninetto Davoli e altri, ma amava stare con tutti.

Vedeva il calcio come un codice di comunicazione, al pari di tanti altri. "Il football è un sistema di segni – ha scritto su "Il Giorno"– e cioè una lingua, sia pure non verbale." L’emittente, il calciatore, usa questo linguaggio nei confronti del ricevente, lo spettatore. Entrambi sono a conoscenza dello stesso codice e quindi in grado di capirsi perfettamente. "Anche il calcio – ha detto Pasolini – possiede dei sottocodici, come ogni altra lingua. Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico".

Per Pasolini, grande tifoso del Bologna, Bulgarelli giocava un calcio in prosa, come Mazzola e Rivera. Riva era il poeta. Il miglior poeta dell’anno, invece, era per lui capocannoniere Beppe Savoldi (si, proprio lui, il papà di Gianluca). Il calcio che esprime più gol è, per Pasolini, sempre quello più poetico.

La sovrabbondanza del materiale prodotto da Pasolini sul calcio trabocca da ogni pagina del libro, al punto che anche noi non riusciamo a resistere alla tentazione di usare le parole del poeta.

"Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio si. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso, Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo".

Nel 1966 fondò con Gianni Morandi la nazionale dello spettacolo, l’antesignana delle tante formazioni che oggi girano per l’Italia. Nonostante indossasse spesso la maglia numero undici, amava giocare a destra. Stravedeva per il "passo doppio" di Biavati, che spesso provava ad imitare.

Un giorno, in una partita giocata a Grado, rinomata spiaggia friulana, dall’altra parte c’era un certo Edy Reja. Pasolini giocava col numero 7 e il futuro allenatore del Cosenza doveva marcarlo. "Si giocava a uomo – ricorda Reja – alla zona ancora non ci si pensava. Lo controllavo senza esagerare. Era veloce, pregevole dal punto di vista tattico. Si vedeva che ci teneva in modo particolare". In campo, per quella partita, scesero un mucchio di bei nomi. Oltre a Reja e Pasolini, c’era Capello, Raf Vallone, Giampiero Ghio (altro ex allenatore rossoblu), Bobby Solo, Giovanni Galeone.

In queste partite amava ricreare la suggestione di vere sfide in veri campi da calcio. Compagni e avversari sottolineano la serietà con la quale entrava in campo e giocava la sua partita. Ma, nonostante l’impegno nell’organizzare questi eventi, gran parte delle sue partite Pasolini le giocò nella polvere dei campi di periferia, anzi di "borgata". Proprio lì, dove il 2 novembre 1975, lo trovarono morto. Ucciso da un ragazzo di 17 anni. Ma questa è un’altra storia.

Nonostante tutto, comunque, Pier Paolo Pasolini non scrisse opere esclusivamente legate al calcio, se non articoli giornalistici. Ma lui, il "linguaggio del calcio" lo ha sempre usato nel posto giusto e con l’attrezzo adatto: un campetto pieno di vita e un pallone fra i piedi.

Federico Bria

"Quando giocava Pasolini" di Valerio Piccioni. Edizioni Limina. L. 25.000

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